martedì 25 novembre 2014

Se questa è una donna!



http://www.edizionilagru.com/tomba-321



Con questo sorprendente esordio letterario, Silvia Palano ci offre un romanzo che è un thriller sulla moralità della storia. Con uno stile pacato e asciutto spalanca la porta dell'inferno e il lettore non puo' fare altro che perdersi nelle 274 pagine del libro per poi finire esausto il percorso davanti alla Tomba 321, ma andiamo per gradi...


Buenos Aires, gennaio 1979, un uomo di circa settant’anni entra in una chiesa e affida a un giovanissimo prete di origini tedesche un diario che racconta la propria gioventù di ufficiale delle SS. Il diario inizia nel 1938 a Kassel con la notte dei cristalli, dove Josef incendia la sinagoga e distrugge i negozi degli ebrei, continua con il periodo di addestramento a Berlino,  la successiva assegnazione al lager di Mauthausen, poi in missione al famigerato Castello degli orrori di Hartheim e in via definitiva ad Auschwitz fino a qualche giorno prima della liberazione del campo, in pratica copre tutto la fase più aggressiva dell'antisemitismo. Alle pagine del diario si alternano i fitti dialoghi tra il vecchio nazista che vuole essere confessato, senza peraltro mostrare mai i segni di sincero pentimento, e il giovane prete che non vuole perdonarlo…

Ovvero prendi  Se questo è un uomo di Primo Levi e rovescialo, otterrai Tomba 321: la parola ai carnefici. Tanto Primo Levi è impietoso nel raccontare l’Auschwitz infernale dei deportati con la loro vita subumana dove ci si uccide per una gamella di brodaglia in più e i nazisti fanno da sfondo al racconto, divinità del male intoccabili, quanto in Tomba 321 il lager è raccontato dall’aguzzino e i prigionieri non ci sono come persone, se non come massa indistinta, sporca e puzzolente che genera fastidio, a tratti imbarazzo fisico all’ufficiale, mai pietà.
Il romanzo è ben giocato su due livelli narrativi: il diario e il dialogo serrato tra il prete e il vecchio nazista che assurgono a rappresentazioni simboliche del bene e del male. Ciò che colpisce è come l’autrice sia riuscita a immedesimarsi in ruoli maschili; soprattutto il diario di Josef sembra proprio scritto da un giovane ufficiale infervorato dalla propaganda hitleriana. E’ un linguaggio virile – maschio si sarebbe detto allora – che non lascia spazio a sentimenti che non siano quelli strettamente legati alla sua famiglia.
La storia cattura il lettore in una spirale che lo costringe a continuare, anche grazie a una serie di colpi di scena che non possiamo svelare per non togliere gusto alla lettura, e l’autrice riesce a mantenere una sorta di equidistanza tra i due, a non mostrare una preferenza tra il bene e il male ed è forse questo il suo trucco sapiente.

Gli interessi e i pensieri di Josef sono tutti rivolti in due direzioni: la carriera e la famiglia. E’ una perfetta rappresentazione della banalità del male. Dispensa la morte come un freddo burocrate e intanto riflette su cosa gli convenga fare per farsi benvolere dai superiori (possibile che quell’imbecille abbia fatto carriera e io no?). Chiede di essere trasferito ad Auschwitz perché si qui si vive, si lavora sodo e si puo’ fare carriera, frigge ragazzini contro il filo di recinzione elettrificato e intanto pensa al figlio malato. Si annoia per la vita del campo (una noia mortale), ma non prova nessun senso di colpa per il suo spregevole compito. Nessuna vergogna, nessuna pietà, al limite solo ribrezzo e imbarazzo per gli aspetti esteriori della convivenza con quei mezziuomini maleodoranti: ci ha perciò ordinato di far riesumare i cadaveri e di bruciarli. Che schifo! E qualche tenerezza scambiata con un’internata adolescente costretta a lavorale al bordello del campo (Al bordello ci si dimentica di trovarsi in un campo di concentramento). Nemmeno l’eccitazione del sadico (non avevo voglia di ammazzare nessuno). Soltanto le disgrazie della sua famiglia lo turbano (il fratello Rolf arrestato perché dissidente, la moglie Anja suicida, il figlio malato), tutto il resto lo lascia indifferente. Annoiato.


Tomba 321 è il convincente romanzo di una giovane esordiente che colpisce nel segno come un pugno sferrato nelle nostre parti molli, una storia che non puo' lasciare indifferenti e che farà discutere. 

Se questa è una donna!




lunedì 3 novembre 2014

Presentazione il mio l'ho fatto a Sesto San Giovanni - Libreria Presenza, 8 Novembre 2014




Presentazione Il mio l'ho fatto presso l'Istituto Storico della Resistenza di Varallo - 29 Settembre 2014

All’Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nel Biellese, nel Vercellese e in Valsesia, è stato presentato l’ultimo romanzo dello scrittore di origini valsesiane Fabio Musati: “Il mio l’ho fatto. L’avventura del partigiano Veritò”.
Lunedì 29 settembre non è stata una data scelta a caso: il 29 settembre 1944 Clemente Musati era stato arrestato, imprigionato nelle scuole di Varallo, poi portato a Milano, quindi trasferito a Bolzano, da dove era partito per il lager di Mauthausen, dove morì. L’autore, nel giorno del suo compleanno, ha voluto regalarsi la prima presentazione proprio all’Istituto, con alle spalle il logo creato nel 1973 da suo padre Arnaldo in occasione del conferimento alla Valsesia della medaglia d’oro per la Resistenza.
Non solo un giorno della settimana piuttosto insolito, ma anche la proposta di una modalità inusuale: un dialogo tra l’autore e il direttore dell’Istituto, Enrico Pagano, contrappuntato dalle letture dell’attore Daniele Conserva, formula molto apprezzata dal pubblico presente.
“Finalmente, grazie ad un romanzo sulla Resistenza esaminata da un punto di vista complessivo e con ambientazioni verosimili e realistiche, è stato restituito a protagonisti come Clemente e Attilio Musati quello spessore umano che gli storici non avevano potuto far emergere, un’opera che avrà certamente un buon futuro e che presto verrà presentata nelle scuole valsesiane. La letteratura batte la storia: due a zero”: Enrico Pagano, che ha firmato la prefazione, ha ricordato come il libro sia nato proprio da una serie di conversazioni ed esperienze comuni che hanno indotto Fabio Musati a ricercare prima all’interno della sua famiglia, poi allargando progressivamente l’orizzonte. Per Fabio è stato un interesse germogliato in anni lontani, in età adolescenziale, quando Cino Moscatelli portò al padre una copia de Il Monterosa è sceso a Milano e la dedicò proprio a lui, avendo compreso che la memoria va trasmessa alle generazioni più giovani, a chi non ha vissuto quegli anni, ma proprio per questo devono “entrargli dentro, trovare una collocazione senza perdersi nell’indistinto fluire del tempo e della storia”.
Dall’incipit del romanzo, che cala il lettore nella settimana santa del 1944, nel cuore della Resistenza, alle pagine finali in cui Veritò, sopravvissuto al campo di concentramento e tornato a lavorare alla Falk, disperde nel forno le ceneri del padre, dicendo “Il mio l’ho fatto, ho pensato, e ho ripreso la mia vita”, è sottesa una domanda rivolta ai lettori che induce a riflettere sulle scelte del presente.
Il romanzo si inserisce nel filone resistenziale alto, tracciato da Fenoglio, Calvino, Pavese, parla in modo estremamente diretto, che arriva al cuore del lettore, con una forza diversa dal saggio storico: Veritò, alter ego dell’autore, è la “terza persona” che serviva per raccontare due figure di valsesiani che ebbero ruoli importanti nella Resistenza e che pagarono con la vita la loro scelta dopo l’8 settembre. Clemente e Attilio Musati erano lo zio e un cugino di Fabio: “Mio padre aveva conservato tutto del fratello che era l’eroe di famiglia, dalle pagelle alle medaglie, alle croci di guerra, alle numerose fotografie che ho sempre visto in casa, di Attilio sapevo molto meno, ma come scrittore potevo prendermi delle belle libertà”. Essendo un romanzo non c’è la bibliografia, ma dietro ad ogni pagina si sente l’eco di molte letture, di fonti accuratamente ricercate ed esaminate: “Le dieci paginette sul lager di Mauthausen mi sono costate otto mesi di lavoro, lì mi sono bloccato perché dovevo calarmi nell’indicibile”.
L’autore non ha eluso nessuno dei temi più delicati e che maggiormente dividono il mondo della Resistenza: quello della guerra civile, inventando un incontro con un conoscente che aveva fatto la scelta opposta, motivandola per cercare di capire anche le ragioni degli altri e quello del “furto di futuro”: “Se non hai futuro puoi pensare solo alla distruzione”, ragionamento quanto mai attuale, che può essere la chiave per interpretare certi comportamenti apparentemente inspiegabili dei giovani di oggi, ma anche per comprendere il difficile reintegro dei reduci nella società. Chi tornava dai Lager nel clima euforico seguito alla fine della guerra, era una stonatura: “Eravamo una nota bassa in un concerto di flauti e violini”.

Piera Mazzone
Nella foto, da sinistra: Conserva, Musati, Pagano

Piera Mazzone


Presentazione Il mio l'ho fatto alla Libreria Odradek di Milano, 17 Ottobre 2014